La nostra Costituzione, all’art. 38 co. 1, dispone espressamente che ogni cittadino inabile e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, imponendo quindi allo Stato di predisporre quelle misure idonee a garantire un dignitoso tenore di vita anche a chi è titolare di un reddito inferiore ad una determinata soglia ed è impossibilitato a procurarsi altre entrate economiche.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito [1] che le provvidenze economiche spettano anche ai cittadini extra-comunitari che per motivi di reddito non hanno diritto al permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, alla sola condizione che siano titolari del requisito del permesso di soggiorno di almeno un anno[2].
Nel nostro ordinamento, il principale ente incaricato di dare concretezza all’obiettivo dell’assistenza sociale è l’INPS, il quale eroga tutta una serie di provvidenze economiche sotto forma di assegni sociali, pensioni e indennità, a favore delle seguenti categorie di cittadini svantaggiati:
La definizione è demandata all’art. 2 della l. n. 118/1971, secondo cui gli invalidi e i mutilati sono coloro che risultano affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
Quella dei ciechi civili è senz’altro tra le prime categorie ad essere tutelata dalle leggi italiane, atteso che la prima forma di assistenza sociale risale proprio all’entrata in vigore della costituzione del 1948. Successivamente furono emanate diverse leggi fino ad arrivare alla l. n. 382 del 1970, in buona parte a tutt’oggi in vigore, e in ultimo alla l. n. 138/2001 che dà una definizione di cecità parziale e totale adeguata ai parametri scientifici più recenti.
La definizione di sordomutismo si trova nell’art. 1 della legge n. 381 del 1970 secondo il quale rientra in tale categoria il minorato sensoriale dell’udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva ( fino al compimento di 12 anni ) che gli abbia impedito il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio.
Se la sordità parziale o totale ed i disturbi della parola fino al mutismo sono sopravvenute per cause diverse dalla sordità perlinguale, esse sono patologie che vengono valutate ai fini del calcolo dell’invalidità civile, sempre che dipendano da cause diverse dalla guerra, lavoro o servizio.
Si considera causa impeditiva del normale apprendimento del linguaggio parlato l’ipoacusia pari o superiore a 75 decibel di HTL di media tra le frequenze 500, 1000, 2000 Hz nell’orecchio migliore, che renda o abbia reso difficoltoso tale normale apprendimento.
A favore di tali cittadini l’INPS eroga la pensione e la c.d. indennità di comunicazione.
Va evidenziato che con la Legge n. 107 del 2010 è stato previsto il riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica: a tal riguardo, infatti, si è espressamente disposto che "Ai soggetti sordociechi vengono erogate in forma unificata le specifiche provvidenze economiche spettanti per sordità civile e cecità civile"
d) Lavoratori affetti da talassemia major e drepanocitosi.
Per avere diritto alla provvidenza economica dell’indennità annuale, occorre essere lavoratori (dipendenti o autonomi) e liberi professionisti affetti da tali patologie, ai quali, in seguito all’emanazione della legge 350 del 2003 con l’articolo 3, comma 131, vanno equiparati i «portatori di talassodrepanocitosi e talassemia intermedia in trattamento trasfusionale o con idrossiurea.»
E’ possibile il cumulo delle pensioni di invalidità?
In passato si riteneva che laddove il soggetto fosse affetto da più menomazioni, avesse diritto solo ad un’indennità, così escludendo la possibilità di cumulare le diverse provvidenze economiche.
Tuttavia, a far data dal 1° marzo 1991, è stata ammessa la cumulabilità delle indennità connesse alle singole minorazioni ove le stesse, autonomamente considerate, integrino i presupposti per la concessione delle diverse indennità (v. art. 2 della Legge n. 429 del 1991). Pertanto, a tutt’oggi, una stessa persona può beneficiare di più provvidenze economiche, sempre che sussistano i requisiti previsti dalle norme relative alle singole provvidenze (ad es., i requisiti sanitari, ovvero l’assenza di ricovero gratuito la quale esclude l’indennità di accompagnamento per gli invalidi civili, etc.).
Tuttavia, se la possibilità di cumulo è pacifica nel caso in cui le diverse provvidenze economiche scaturiscano da altrettanti riconoscimenti di invalidità, ciascuno in base a malattie o minorazioni diverse, appare ben più complessa l’ipotesi in cui l’invalido soffra di patologie e minorazioni che, singolarmente prese, possano essere valutate al fine dei diversi riconoscimenti di invalidità: ad esempio la cecità, sia ai fini delle provvidenze economiche previste per i ciechi civili e sia della indennità di accompagnamento prevista per gli invalidi civili.
Già prima della novella del 1991, la Corte Costituzionale, con la nota sent. n. 346/1989, ha avuto modo di precisare come a tal riguardo non fosse individuabile un generico divieto di cumulo. I giudici delle leggi hanno dichiarato costituzionalmente illegittimo - per contrasto con l’art. 3 Cost. - il combinato disposto degli art. 1, 1 comma della legge 18/1980, e 2, 4 comma, legge 118/1971, nella parte in cui escludono che ad integrare lo stato di totale inabilità con diritto all’indennità di accompagnamento possa concorrere, con altre minorazioni, la cecità parziale. La consulta, infatti, ha precisato che l’indennità di accompagnamento, in quanto diretta a consentire alle persone non autosufficienti condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana (art. 2 e 38, comma primo, Cost.), costituisce una provvidenza specifica, funzionalmente diversa ed " aggiuntiva" rispetto alle prestazioni assistenziali connesse alle invalidità o alla inabilità al lavoro, cosicchè non può essere negata per il fatto che, a determinare lo stato di invalidità civile, concorrano menomazioni (come per l’appunto la cecità parziale) che danno diritto ad autonome prestazioni: cosi facendo si andrebbe a ledere inesorabilmente il principio eguaglianza in quanto si concederebbe o meno una prestazione assistenziale a soggetti che ne siano parimenti bisognevoli, a seconda che fruiscano o meno di provvidenze preordinate ad altri fini.
In conclusione, il principio espresso dalla Corte Costituzionale è quello secondo cui non è necessario che, ai fini del cumulo delle provvidenze economiche, ad ogni status di invalidità corrisponda giocoforza una distinta causa invalidante. E’ pertanto possibile, per es., che a un cieco assoluto (che riceva già la provvidenze per la sua condizione di minorazione visiva) possa essere riconosciuta l’invalidità civile al 100%, e le relative provvidenze, utilizzando come criterio per la valutazione dell’invalidità anche la menomazione della capacità visiva: tuttavia, tale minorazione non può essere di per sè sufficiente, in quanto occorre che si aggiunga l’ulteriore condizione di legge circa l’inidoneità del soggetto a compiere, in forma autonoma, gli atti quotidiani della vita.
Le provvidenze economiche assistenziali sono pignorabili?
Sul punto occorre muoversi con ordine, cercando di distinguere le varie provvidenze in base alla ratio e al fondamento delle stesse, atteso che vi sono indennità assolutamente impignorabili e altre che, invece, sono da considerarsi pignorabili entro certi limiti.
La possibilità di consentire il pignoramento di alcune indennità, anche se per la quota eccedente determinati limiti, nasce dall’esigenza di bilanciare due principi costituzionali:
- da un lato vi è il diritto degli svantaggiati a godere del mantenimento dell’assistenza sociale e di usufruire di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, vecchiaia, malattia e disoccupazione: tutto ciò, in modo che possano condurre un’esistenza dignitosa (v. art. 38 Cost.);
- dall’altro vi è la necessità di tutelare le ragioni dei creditori e di garantire, in modo indiretto, il pieno soddisfacimento del diritto alla proprietà privata dei beni nella sua necessaria coordinazione con le finalità sociali (v. art. 42 Cost.). A tal riguardo entrano in gioco le norme civilistiche di cui all’art. 2740 c.c. (regime di responsabilità patrimoniale) e l’art. 545 del c.p.c (che stabilisce i limiti entro i quali devono essere circoscritti la sequestrabilità e la pignorabilità dei beni con cui soddisfare i diritti di credito).
Si è dibattuto a lungo se le pensioni, soprattutto quelle di invalidità, fossero assoggettabili ad esecuzione forzata, o se dovessero essere considerate una sorta di "zona franca" per i creditori, atteso il loro carattere assistenziale o previdenziale.
Già in epoca fascista si era posto il problema, risolto grazie all’art. 128 del R.D. n. 1827/1935 il quale disponeva che "Le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti in forza del presente decreto, non sono cedibili, né sequestrabili, né pignorabili, eccezione fatta per le pensioni, che possono essere pignorate soltanto nell’interesse di stabilimenti pubblici ospitalieri o di ricoveri per il pagamento delle diarie relative, e non oltre l’importo di queste".
In proseguo di tempo, e in un nuovo contesto costituzionale, intervenne la L. n. 153/1969 precisando che le pensioni, gli assegni e le indennità possono essere ceduti, sequestrati e pignorati nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso l’INPS derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall’Istituto stesso, oppure da omissioni contributive, (escluse in questo caso, le somme dovute per interessi e sanzioni amministrative).
Negli anni successivi, la Corte Costituzionale ha ulteriormente ridotto il margine di impignorabilità delle pensioni previdenziali e assistenziali, dapprima con la Sentenza n. 1041 del 1988, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che escludono la pignorabilità per crediti alimentari delle pensioni corrisposte dall’INPS, e poi con le due Sentenze, n. 468/2002 e n. 506/2002, le quali hanno ulteriormente esteso le possibilità di pignoramento delle prestazioni pensionistiche INPS.
Se con la prima di tali ultime sentenze si è affermata la pignorabilità delle pensioni per crediti tributari, con la seconda si è riconosciuto un margine di impignorabilità generale dei trattamenti pensionistici: in altri termini, la Corte ha affermato il principio secondo cui ad ogni cittadino devono essere riconosciuti i mezzi adeguati per vivere una esistenza dignitosa, con la conseguenza che se il reddito - anche se derivante da pensione - non supera determinati limiti la possibilità di pignoramento deve essere esclusa.
Ciò che colpisce è che la Consulta ha ritenuto legittima la scelta del legislatore di consideri impignorabili le pensioni di modesto importo, citando l’esempio delle pensioni per causa di invalidità, ma non ha avuto l’accortezza di affermare che la causa di impignorabilità risiede proprio nella funzione assistenziale di tali provvidenze economiche.
Vi è, infatti, una profonda e tradizionale differenza tra:
- i trattamenti di natura previdenziale: ossia erogazioni riservate alle classi lavoratrici al fine di riparare le conseguenze dannose derivate da alcuni eventi previsti ed individuati dal legislatore, quali infortuni, malattie, vecchiaia, disoccupazione involontaria con le indennità di cassa integrazione e mobilità; essi vengono elargiti dagli Enti Previdenziali e sono finanziati mediante i contributi dei lavoratori; normalmente il diritto alla prestazione spetta a chi abbia accumulato un numero minimo di anni di versamenti contributivi. Il fondamento costituzionale della previdenza sociale risiede nell’art. 38 co. 2 della Cost.
- i trattamenti di natura assistenziale: ossia prestazioni indirizzate al sostegno di ogni persona che si trovi in uno stato di bisogno; essi vengono erogati direttamente dagli organi di pubblica amministrazione ed attinge i propri mezzi dal finanziamento pubblico con le imposte (ricorso alla fiscalità generale), in ciò differenziandosi da tutte le altre istituzioni private di assistenza e di beneficenza, con le quali condivide lo spirito di solidarietà umana, e dalla previdenza sociale, alimentata in linea di principio dai contributi dei lavoratori. Il fondamento costituzionale delle provvidenze assistenziali risiede nell’art. 38 co. 1 della Cost.
E’ evidente quindi la differente natura tra previdenza e assistenza, atteso che quest’ultima rappresenta niente meno che la monetizzazione dell’assistenza che lo Stato avrebbe dovuto assolvere in forma specifica a quei soggetti che necessitano di cure e mezzi resi necessari dal loro stato di bisogno, nell’ottica anche di valorizzare i principi costituzionali della famiglia come strumento di attuazione di interessi generali in un’ottica di solidaristica (art. 2 Cost.). Per tali motivi le provvidenze di natura assistenziale devono essere considerate assolutamente impignorabili.
Detto ciò, si tratta dunque di individuare quali prestazioni hanno carattere previdenziale e quali assistenziale, di modo ché se ne possa definitivamente stabilire la loro assoggettabilità a pignoramento.
Nel nostro sistema hanno carattere assistenziale e, quindi, non devono ritenersi pignorabili:
- l’indennità di accompagnamento per gli invalidi civili totali;
- la pensione di inabilità per gli invalidi civili totali;
- l’indennità di accompagnamento per gli invalidi civili totali;
- l’assegno mensile di assistenza per gli invalidi civili parziali;
- la pensione di inabilità per i ciechi assoluti e la pensione per i ciechi parziali;
- l’indennità di accompagnamento per i ciechi assoluti e indennità speciale per i ciechi parziali;
- l’indennità di comunicazione per i sordi;
- la pensione a favore dei sordi;
- l’indennità di frequenza per i minori di diciotto anni;
- l’assegno sociale;
- l’assegno al nucleo familiare (ANF) e gli altri trattamenti di famiglia (assegni familiari e maggiorazione delle pensioni dei lavoratori autonomi, ossia quelle corrisposte agli artigiani, agli esercenti attività commerciali ed ai coltivatori diretti, coloni e mezzadri.
Tutti questi interventi di protezione sociale vengono erogati a prescindere dai contributi versati dal lavoratore, essendo sufficiente che questi versi un reale ed effettivo stato di bisogno e di svantaggio.
Di ciò si può trovare conferma nella circolare INPS n. 31 del 2 marzo 2006, che consente il pignoramento di tali indennità unicamente per recuperare somme e crediti derivanti da pregressa indebita erogazione della prestazione. In altri termini, la pignorabilità di tali somme è ammessa a vantaggio dell’Ente erogatore (INPS ad es.) laddove in precedenza abbia corrisposto indebitamente la provvidenza stessa.
Resterebbero quindi pignorabili solo ed esclusivamente quelle provvidenze economiche aventi natura strettamente previdenziale, ossia quelle erogate ai lavoratori e a copertura dei rischi invalidità (si pensi all’assegno per l’assistenza personale e continuativa), vecchiaia, superstiti, disoccupazione, infortuni (professionali), malattia ed a tutela della maternità, rimanendo invece escluse le prestazioni economiche aventi natura assistenziale come quelle elencate in precedenza.
Un impostazione analoga a quella de quo si può rinvenire in una recente sentenza[3], che accoglie la tesi della impignorabilità delle indennità a carattere assistenziale, poichè sarebbero volte a reintegrare essenziali espressioni di vita menomate della malattia, considerando pignorabili solo quelle a carattere previdenziale.
Tuttavia, va ricordato che la pignorabilità delle erogazioni di carattere previdenziale incontra dei limiti ben precisi, e cioè:
- non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale (448,52 euro) aumentato della metà (224,26 euro): è il c.d. "minimo vitale" richiamato anche dalla Corte Costituzionale che, nel 2016, è pari a 672,78 euro mensili;
- per la quota eccedente il minimo vitale, è possibile il pignoramento non superiore a un quinto: cosi ad es. se il soggetto percepisce 1000 euro, potrà subire un pignoramento solo della somma eccedente i 672,78 €, cioè 327,22 €, e comunque nella misura di un quinto ovvero pari a euro 65,44 mensili.
Avv. Enrico Abis.